Intervista a Giangi Cretti: un personaggio dalle mille risorse

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Intervista a Giangi Cretti: un personaggio dalle mille risorse

Dopo le scuole dell’obbligo in provincia di Bergamo, dov’è nato, e il liceo in Ticino, dov’è approdato nel 1970, si trasferisce a Zurigo per frequentare l’università, iscrivendosi alla facoltà di romanistica.

Parallelamente allo studio universitario inizia ad insegnare nei corsi per adulti: dapprima all’Enaip e poi presso l’Ecap. Un’esperienza fondamentale che lo introdurrà nel mondo dell’emigrazione italiana al quale resterà (e tuttora resta) saldamente ancorato.

È stato animatore delle attività culturali della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS) di cui sarà anche presidente e della quale è tuttora membro del consiglio direttivo e del comitato esecutivo.

Nel corso degli anni è stato direttore del settimanale Emigrazione Italiana, di Agorà e di Agorà Europa.
Nel 1998, su incarico della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera (CCIS) elabora un progetto editoriale, che darà vita al mensile la Rivista di cui assume la direzione. Inoltre, Giangi Cretti, ha sviluppato collaborazioni con la RadioTelevisione Svizzera di lingua Italiana (RSI) e con agenzie, pubblicazioni e radio private sia italiane sia svizzere. Iscritto al registro professionale svizzero dei giornalisti dal 1984, è membro della FUSIE, la Federazione Unitaria della Stampa Italiana all’Estero, di cui, dall’aprile del 2011, è presidente.

Dal 1999 fa parte del CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all’Estero), nel quale è presidente uscente della Commissione Informazione. È stato membro del Comites di Zurigo. Attualmente è vicepresidente dell’Associazione Svizzera per i Rapporti economici e culturali con l’Italia (ASRI). È membro della Schulkommission del Liceo artistico di Zurigo.

Dal gennaio 2013 è membro del Forum per l’Italiano in Svizzera, di cui, da quest’anno è vice-presidente.
Lo abbiamo intervistato.

È diffusa l’impressione che la stampa all’estero soffra di una scarsa considerazione. Come potremmo proteggere la nostra categoria all’estero?

Innanzitutto, scrollandoci di dosso un atteggiamento – conseguenza di una certa inclinazione all’autocommiserazione – che induce a considerarci ‘figli di un dio minore’, e poi, soprattutto, puntando, per quanto possibile, sulla qualità.

Impresa tutt’altro che facile. Anzi, decisamente ardua. A fronte dell’innegabile costatazione che, oggi molto più di ieri, gli editori, e di conseguenza le testate, sono confrontati con oggettive difficoltà.

Scontato annotare che scarseggiano le risorse economiche. Che scompare la pubblicità. Che, in un’epoca di informazione gratuita, gli abbonamenti sono un miraggio. Nulla più che conseguenze: delle mutate e moltiplicate modalità di produzione e fruizione dell’informazione; della frammentazione dei pubblici potenziali e della difficolta di intercettarne l’attenzione; della perdita di autorevolezza delle testate, che paradossalmente deriva anche da un dato positivo: è indirettamente proporzionale al superamento delle difficoltà essenziali che le nostre comunità hanno incontrato nella fase di emigrazione. È infatti archiviato, ed è un bene, il tempo in cui le testate svolgevano una irrinunciabile funzione di servizio, spesso supplente dell’assenza istituzionale, costituendo un solido riferimento di orientamento, di indirizzo e di tutela.

Oggi queste funzioni o sono superate o vengono svolte da enti o strutture specificamente preposti. Resta immutato, e per certi versi ancor più pressante, il bisogno di veicolare informazione: affidabile, credibile. Per farlo, è necessario trovare o ricostruire una nuova sintonia con i destinatari di questa informazione. Sintonia di contenuti e al contempo di strumenti. Vista la velocità con la quale oggi si consuma l’informazione, ottenere tale sintonia diventa un compito difficile, sicuramente complesso, soprattutto per i periodici. Che devono aver ben chiari i loro obiettivi e naturalmente ripensare, ridisegnare, adeguare la loro strategia editoriale. Obiettivo che assume la complessità di una sfida fortemente ambiziosa, se pensiamo che molte testate condizionano la loro esistenza ai contributi erogati dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria (DIE) della Presidenza del Consiglio.

Per completare il quadro, aggiungiamo la constatazione che non completamente metabolizzata – anzi, verosimilmente non ancora digerita per quanto indifferibile, è la convivenza con il WEB, di cui si percepisce quella che nei fatti è un’insostenibile concorrenza, dalla quale, in teoria, potrebbe scaturire un rapporto virtuoso di mutuo soccorso.

Questo il contesto. Ma le testate non sembravo godere della giusta considerazione e dell’adeguato sostegno neppure da parte di organi istituzionali.

Intuisco che il riferimento vada ai Comites e ai Consolati. Se a questi ultimi il DIE si appoggia per eventuali e puntuali verifiche relative alle richieste di contributi, ai Comites spetta, come prevede la legge istitutiva, esprimere non un voto, ma, de facto e de jure, un parere non vincolante. Non ignoriamo che questa competenza si sia prestata, e ancor in taluni casi si presti, anche ad applicazioni pretestuose. La cronaca ci ha raccontato, e ancor ci racconta, di difficili convivenze fra presidenti di Comites ed editori.

Non mi pare, al netto di posizioni preconcette, che sia difficile comprendere che il parere, non vincolante ma pur sempre obbligatorio, debba essere espresso in base a criteri oggettivi, che possano sintetizzarsi nell’effettiva presenza e diffusione della testata nella circoscrizione di competenza del Comites. Qualsiasi altra valutazione relativa al gradimento dei contenuti per sua natura soggettiva, pertanto opinabile, spetta ai lettori: sono loro che giustificano l’esistenza di una testata. Senza lettori non c’è testata.

Tornando ai Comites – ma il discorso a mio avviso vale anche per i Consoli o per i funzionari consolari preposti – è bene chiarire anche che – a meno che, in fase di istruttoria, non ci sia un’esplicita richiesta da parte del DIE – non spetta a loro esprimere un parere sulla tenuta contabile e amministrativa delle testate. Questa è una competenza esclusiva del DIE, preposto alla verifica puntuale della documentazione che certifica tutte le spese sostenute nella produzione e nella distribuzione delle testate, nonché la correttezza della gestione amministrativa.

In questo scenario quale futuro possono avere le testate italiane all’estero, grandi e piccole?

Dopo quello che ho detto, in modo laconico, mi verrebbe da rispondere: quello che sapranno ritagliarsi autonomamente. Senza dubbio avvalendosi delle potenzialità enormi, che fanno il paio con gli altrettanto enormi rischi, offerte dalle nuove tecnologie. Comunque, un futuro complicato.
Qualche decennio fa era più faticoso ma molto più semplice. Se escludiamo alcune circoscritte esperienze di radio e tv, all’estero l’informazione era veicolata sulla carta: si scriveva, si stampava e si distribuiva. Con quello che ciò significava in termini di infrastrutture, di tempo e di costi. Oggi, a quanto pare, è sufficiente digitare qualche pensiero, o presunto tale, meglio se provocatorio e poco importa se verificato, si schiaccia un tasto et voilà inondi il mondo di notizie. Vere o false è irrilevante: l’importante è farle circolare.

Siamo costantemente contagiati da una bulimica euforia tecnologica, dalla quale si uscirà quando si sapranno governare le straordinarie potenzialità e controllare i rischi. Per farlo è necessaria una sorta di evoluzione culturale: degli editori, dei lettori, delle istituzioni, della politica. Un’evoluzione che, in quanto tale, non giungerà mai a compimento e che pertanto va puntualmente e costantemente accompagnata. Ma servirebbe tempo, un lusso che oggi ci si può permettere se le risorse lo consentono.

Nel frattempo, le piccole, perché nei fatti sono piccole, testate degli italiani all’estero dovranno continuare a confrontarsi con il significato di un termine che negli ultimi tempi è entrato, nostro malgrado, nel vocabolario quotidiano: resilienza.

Ciò, checché ne dicano gli aspiranti seduttori, sedotti dalla forza del mercato, non può prescindere dal sostegno pubblico, ma presuppone una rinnovata capacità di produrre e veicolare informazione proponendosi come animatori di una nuova consapevolezza di cui devono riappropriarsi i lettori.

Resta invariato l’obiettivo di consolidare, migliorandola, la reputazione di cui godono queste testate. Non ignorando che a vari livelli sono ritenute un retaggio di un passato superato, tollerate come residuali, buone per i sopravvissuti e i reduci di un fenomeno migratorio (ormai un piccolo mondo antico?) che muoveva soprattutto braccia, mentre oggi pare stimoli la mobilità di cervelli, notoriamente omologati e profilati dall’ossessiva fruizione delle nuove tecnologie.

Prendiamone atto: le nostre testate sono sopportate se allineate al pensiero dominante; funzionali, va da sé in modo alternato, se grancassa di questo o quell’interesse. Nel migliore dei casi, consegnate alla memoria. Che è sempre più un omaggio rituale e sempre meno un dovere e un fondamento per la costruzione civica di un’esperienza collettiva.

Se questa è la realtà difficile immaginare che la politica possa occuparsi o preoccuparsi dei problemi con i quali si confronta il mondo dell’editoria degli italiani all’estero. Ben che vada, questi problemi li ascolta, quando non li subisce, sempre più come un fastidio, convinta comunque che ben presto se ne libererà.

Del sostegno alla stampa, al di là di parole di circostanza, finora almeno, nessuno si fa carico concretamente, perché superficialmente è ritenuta una battaglia di retroguardia: da un lato ci si accomoda sul fatto che oggi l’offerta è talmente vasta, per merito (per colpa?) delle nuove tecnologie, per cui non ha più senso occuparsi di qualcosa che si ritiene sorpassato, dall’altro si coltiva la comoda convinzione, magari temporanea, miope, interessata, che oggi valga la legge del mercato, gridando urbi et orbi (agli orbi e ai sordi?) che il sostegno pubblico va annullato, stabilendo di fatto il principio che solo chi ha i soldi possa creare o gestire i canali per la (dis)informazione.

Non solo la stampa, anche gli organismi eletti hanno sempre più difficoltà a far sentire la voce degli italiani all’estero.

È vero. L’intero sistema di rappresentanza degli italiani all’estero si trova in una fase in cui sempre più evidente sembra essere relegato ad una funzione di mera testimonianza. In tal senso, è tollerato: in Italia, ma anche fuori d’Italia.

Vale (pur con tutto i distinguo che la dialettica consente, questo è!) per i parlamentari, segnatamente quelli eletti nella circoscrizione estero. A maggior ragione dopo che la loro presenza è stata ridotta ad un numero umiliante, ulteriormente penalizzata da una modifica di legge che consente di eleggere all’estero anche chi l’estero l’ha vissuto in cartolina, da turista per caso o al seguito. Talvolta costretti a mimetizzarsi dietro il vincolo di mandato, ma nei fatti comprensibilmente frustrati dal fatto di essere costretti ad esibire, loro malgrado, come massimo risultato politico un ordine del giorno o un’interrogazione, oggettivamente materialmente impossibilitati, vista anche la dimensione dei loro aree di competenza, a rappresentare e a creare attenzione ed eventuale consenso attorno alle tematiche e alle problematiche che toccano il composito e variegato mondo degli italiani all’estero.

Stante questa situazione è naturale e per certi versi fisiologico che si concentrino su questioni che fanno maggior rumore, elettoralmente più spendibili, quali i servizi consolari, la promozione della lingua, le varie tasse e canoni legate all’abitazione in Italia, eredità di cui, tra l’altro, molti italodiscendenti vorrebbero volentieri liberarsi.

Vale per il CGIE: per il quale basta la constatazione che, eletto per legge dello Stato più di un anno fa, avrà la sua prima seduta di insediamento il prossimo 19 giugno. Facile trarre la conclusione di quale sia la considerazione di cui gode.

Vale per i Comites, che, a distanza di decenni, non sono riusciti a consolidare la loro identità funzionale, incapaci di superare, spesso alimentandoli, il dualismo e la confusione con il tessuto associativo di cui inizialmente sono stati espressione, diventandone poi aspiranti supplenti. Con il risultato di aver penalizzato, nel tentativo di cannibalizzarlo, l’intero tessuto associativo.

In generale, credo dobbiamo prendere atto che attorno a questo sistema di rappresentanza l’interesse fra i connazionali che vivono fuori d’Italia, pur con le differenze che si possono registrare fra l’Europa e alcune realtà dell’Oltreoceano, sia tendenzialmente scarso. Complici anche modalità elettorali, come l’inversione di opzione, che sembrano intenzionalmente pensate proprio per incentivare, o comunque per evidenziare il disinteresse. Non credo sia difficile individuare a chi possa giovare agitare il vessillo della scarsissima partecipazione al voto degli italiani all’estero: certamente a coloro che a parole gli italiani all’estero li beatificano e nei fatti, nella migliore delle ipotesi, li utilizzano.

Non vi è dubbio che la strada per la riforma (l’azzeramento?) del sistema di rappresentanza degli italiani all’estero sia già stata imboccata. Il problema è che c’è chi, in Italia, lo sta facendo con chiara visione strategica e chi, invece, noi all’estero, si perde, e perde tempo, tergiversando in modo improduttivo sul confronto (scontro?) tattico.

Atteggiamento miope e colpevole quest’ultimo, non foss’altro perché la rappresentanza degli italiani all’estero è necessaria per mantenere l’attenzione sui problemi, ma anche sulle potenzialità, che per il nostro Paese, essi rappresentano.

Fra i problemi che rimbalzano regolarmente c’è quello dei servizi consolari. Oltre a lamentarcene cosa si può fare?

Problema oggettivo, che non si manifesta allo stesso modo nell’universo mondo e neppure con la stessa intensità per le stesse tipologie di servizio. Esemplificando: le pratiche per il riacquisto della cittadinanza non ‘affliggono’ allo stesso modo il consolato generale di Buenos Aires e quello di Ginevra. E ben ne possiamo comprendere le motivazioni.

In generale, un problema che, tarato su quella che ne è la sua percezione, va però inquadrato superando l’atteggiamento, talvolta preconcetto, della contrapposizione. Che è comunque una scorciatoia che, sul modello ‘piove governo ladro’, induce a concludere che è tutta colpa del consolato.

A fronte della percezione di un disservizio – che si manifesta solitamente evidenziando che i tempi per ottenere un appuntamento per il rinnovo di un documento d’identità possono trascorrere fra i 3 e i 6 mesi – ci sono i dati ufficiali che certificano che il numero delle pratiche evase, rinnovi compresi, dai consolati, in modo particolare calcolato sul rapporto numero pratiche/unità lavorativa è, anno dopo anno, in costante crescita. Se questo è vero, ed è vero, ecco che il problema, che comunque c’è, si pone in termini diversi dai quali far discendere le possibili soluzioni.

Questo stato di cose evidenzia due criticità: una ci dice che la digitalizzazione delle procedure non è ancora ottimale, l’altra, e questo vale non solo per la Svizzera, nei 5 consolati operativi oggi (una quarantina di anni fa fra consolati e agenzie ce n’erano 22) c’è un’oggettiva carenza di personale.

Se la prima soluzioni passa attraverso i per me insondabili misteri delle nuove tecnologie, la seconda transita lungo un semplice, almeno all’apparenza, atto legislativo. Infatti, siccome il compenso per gli operatori dei diversi consolati è fissato centralmente ed è valido per l’universo mondo, è comprensibile che, stanti il costo della vita e il potere d’acquisto nella Confederazione, sia umano che, gli operatori preferiscano andare a lavorare in Paesi dove, a fronte dello stesso compenso, il costo della vita sia molto più basso. Questo vale evidentemente per il personale che è inviato dall’Italia, ma del pari vale anche per le cosiddette assunzioni in loco: generalmente il salario ‘istituzionale’ non è competitivo con quello che, altrettanto generalmente, è percepito in Svizzera.

Ecco, pertanto, che i posti di lavoro dentro la rete diplomatica-consolare in Svizzera non sono molto appetibili, e quando si sventola urbi et orbi che centinaia di contrattisti sono stati assegnati per la rete estera, si evita accuratamente di dire quanti fra questi diventeranno operativi in Svizzera. Allo stesso modo, la recente approvazione dell’emendamento che autorizza il rifinanziamento di 1 milione di euro per il 2023 (ma cosa significa in termini concreti sule singole retribuzioni?) e di 1,8 milioni di euro a decorrere dal 2024 per consentire il riadeguamento delle retribuzioni del personale a contratto, è sicuramente d’aiuto, ma non è risolutivo.