Altre brutte notizie per gli italiani nel mondo: la riforma del “ius sanguinis” nel mirino
In un recente incontro con la stampa, il Vice Primo Ministro e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI), Antonio Tajani, ha annunciato la nuova riforma riguardante la cittadinanza italiana “ius sanguinis” (diritto di sangue), recentemente approvata dal Consiglio dei Ministri.
Questa riforma, che limita in modo significativo il diritto di cittadinanza per numerosi italo-discendenti sparsi in tutto il mondo, è stata accolta con favore dal Sindacato Nazionale dei Dipendenti del Ministero degli Affari Esteri, che la vede come un passo positivo verso il miglioramento dei servizi consolari e l’ottimizzazione delle risorse. Secondo il Sindacato, infatti, la riforma potrebbe contribuire a liberare risorse umane ed economiche, rendendo i servizi di assistenza consolare più rapidi ed efficienti. Tuttavia, per molti italo-discendenti, le implicazioni della riforma risultano essere particolarmente gravi e frustranti.
In pratica, il decreto mira a limitare il riconoscimento della cittadinanza ai discendenti diretti degli italiani emigrati dopo l’Unità d’Italia, un movimento migratorio che ha interessato in particolare le Americhe. L’Argentina, che ha visto una crescente domanda di cittadinanza italiana negli ultimi anni, è il paese che risente maggiormente di questa riforma. Le richieste di cittadinanza sono passate dai circa 20.000 casi registrati nel 2023 a 30.000 nel 2024, con una continua crescita della domanda. Situazioni simili si verificano anche in Brasile, dove le richieste sono aumentate da 14.000 nel 2022 a 20.000 lo scorso anno. Un dato interessante proviene dal Venezuela, che nel 2023 ha visto circa 8.000 richieste di cittadinanza.
In base a una stima verosimile, si calcola che gli oriundi italiani nel mondo, ovvero coloro che potrebbero teoricamente richiedere il riconoscimento della cittadinanza italiana secondo la legge vigente, si aggirino tra i 60 e gli 80 milioni di persone. Questi numeri rappresentano non solo un grande patrimonio di legami storici e culturali, ma anche una testimonianza della vasta diaspora che ha segnato la storia del nostro Paese dall’Unità d’Italia in poi.
La riforma si concentra su due punti principali. Primo, la cittadinanza sarà concessa esclusivamente a due generazioni di discendenti diretti degli italiani emigrati, limitando drasticamente l’accesso a chi appartiene a generazioni successive. Secondo, un aspetto positivo dal punto di vista organizzativo è che la gestione delle richieste di cittadinanza non sarà più di competenza dei consolati italiani all’estero, ma verrà trasferita a un ufficio appositamente istituito all’interno del Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale, con l’obiettivo di centralizzare e snellire il processo burocratico.
Se è vero che questa riforma potrebbe, e sottolineo potrebbe, essere una mossa per combattere i cosiddetti “furfanti”, ovvero coloro che approfittano di pratiche poco trasparenti, magari con l’aiuto di agenzie legali senza scrupoli, che contribuiscono ad arricchirsi aggirando le leggi e ottenendo passaporti italiani per chi non ha realmente legami con l’Italia, non possiamo ignorare che nel mezzo di queste pratiche il governo rischia di penalizzare anche chi ha una genuina e profonda connessione con il nostro Paese.
Ci sono moltissimi oriundi che aspirano ad avere la cittadinanza italiana per sentirsi parte integrante della nostra cultura e della nostra storia, e non per opportunismo economico o per altri motivi di convenienza. Questo Decreto potrebbe sembrare una risposta a un bisogno di “selezionare” coloro che realmente meritano di far parte della nostra comunità nazionale, ma è altrettanto vero che in questa selezione rischiano di venire esclusi molti discendenti che sono legati all’Italia in modo profondo, non solo per origine, ma anche per valori culturali e affettivi.
A tal proposito, l’aspetto che mi preme sottolineare riguarda l’approccio adottato dal governo nell’introdurre questa riforma. Il fatto che sia stata approvata con un decreto senza alcuna consultazione con il Parlamento o con gli organi di rappresentanza degli italiani nel mondo, come il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero (CGIE), solleva forti dubbi sulla trasparenza e l’inclusività del processo decisionale.
La normativa sul riacquisto della cittadinanza italiana era già all’ordine del giorno del Consiglio di Presidenza del CGIE, che si riunirà dal 31 marzo 2025, ma le decisioni prese dal governo sembrano essere state adottate senza attendere il parere degli organi competenti, ignorando di fatto il ruolo consultivo e rappresentativo che il CGIE dovrebbe svolgere in questi casi.
In qualità di Consigliere del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero (CGIE), non posso fare a meno di esprimere la mia amarezza per un episodio che ha ulteriormente minato la credibilità dell’organo di rappresentanza. Alcuni “Consiglieri di nomina governativa”, rappresentanti di partiti politici dichiaratesi di Centrodestra, hanno pubblicato un comunicato stampa in cui hanno preso una posizione pubblica riguardo alla riforma, senza consultare il Consiglio nel suo insieme. Questo comportamento, che rischia di mettere in discussione la collegialità del CGIE e crea uno spiacevole precedente, non fa altro che indebolire l’organo stesso, esponendolo a manovre di personalismo, per il solito quarto d’ora di notorietà, che, invece di servire gli interessi degli italiani all’estero, puntano esclusivamente a ottenere visibilità per motivi diversi al ruolo.
Purtroppo, atti come questi non fanno altro che sminuire l’importanza e l’autorevolezza del CGIE, che ha sempre svolto un ruolo fondamentale nella difesa dei diritti e degli interessi degli italiani all’estero. In un momento storico come quello attuale, con le difficoltà crescenti che gli italiani nel mondo si trovano ad affrontare ogni giorno, sarebbe auspicabile che l’organo di rappresentanza ritrovasse quella pace e serenità necessarie per poter lavorare in modo efficace e congiunto. Solo così si potrà veramente tutelare il legame profondo che unisce gli italiani nel mondo al nostro Paese, senza essere travolti da dinamiche politiche interne che poco hanno a che fare con gli interessi dei cittadini all’estero.
Mi auguro che il CGIE possa ritrovare la propria unità e che, al di là delle posizioni politiche, si possa lavorare insieme per risolvere le problematiche quotidiane di tutti gli italiani nel mondo. La riforma del “jus sanguinis”, così come altre decisioni simili, merita una riflessione più profonda, e soprattutto una gestione più inclusiva e condivisa con chi quotidianamente rappresenta gli italiani all’estero.